Da Catarina a Masaya. Poi in attesa sulla carretera fuori Masaya, direzione Granada. Non faccio in tempo a comprare una pupusa che eccolo il mio school bus: “Granada, Granada! Huembes! Granada!” Grida l’aiutante, affacciandosi ciondolante dal fondo. Salgo al volo e non ho modo di chiedere dove il bus mi lascerà, ma resto bloccata ai primi gradini, perché siamo veramente full. Stipati e oliati come sardine. E rido. È inutile che l’autista insista con “al fondo, al fondo, vayan caminando“. Che vuoi camminare? Ché stiamo tutti sospesi, carne con carne. L’unico che riesce a passare per raccogliere i soldi, non so come, è l’aiutante e scommetto 1000 euro che quello lì sarebbe in grado di camminare pure sulle acque. Dios es mi Fe. Ci sono almeno altre tre persone nello spazio tra me e l’allegro conduttore. Non potendo muovermi, conquisto la mia posizione dando le spalle alla strada e appollaiandomi proprio sul ferro arrugginito che collega la porta a soffietto al manubrio orizzontale, alla destra del volante, quello che l’autista muove per aprire e chiudere. I miei vicini di viaggio mi sorridono divertiti: “Europea?!” “Italiana”. E mi spiegano che quello che occupo, loro lo chiamano il posto della novia del chofer. Suppongo che il posto della moglie sia proprio sulle gambe dell’autista! E niente, continuiamo a fermarci e a far salire gente – qualche volta anche a far scendere, ma raramente – con l’aiutante che dal fondo chiama e grida le fermate all’autista, per conto dei passeggeri, e la radio che va a tutto volume. Cumbia a palla, potessi ballare almeno… Resisto, sul mio personale fortino, ma salgo e scendo, con le mie sacre nalghe, ad ogni apertura della porta pieghevole da parte de mi novio. E rido ancora. Mi sono anche ricordata di quella volta in bus a Cuba, tanti anni fa, letteralmente in braccio ad una mami nera e burrosa.
Bisogna volersi veramente tanto bene per viaggiare così: dalla casa al lavoro, dalla casa alla strada, dalla casa all’università, dalla casa ai campi. E ritorno.
E poi sale lui, che in teoria dovrebbe essere l’ultima goccia che fa traboccare il bus, ma niente, ‘sto vaso non ha fondo e non trabocca affatto. “Dele! Dele pues, cierre la puerta!”
È come giocare a tetris e nel gioco di incastro viene fuori che lui riesce a salire sul secondo gradino, con una mano si appoggia alla porta chiusa, con il suo corpo ruba spazio all’omone appiccicato al palo dei primi sedili, con la mano dell’altro braccio si appoggia al ferro della porta, ma oltre il mio corpo, e con la sua faccia finisce proprio all’altezza del mio seno: intendo dire, a tre centimetri.
Urca, non rido più.
Bello come il sole. Mestizo puro (un ossimoro che rende l’idea), moraccione, braccia forti, pelle scura, capelli corti, barbetta leggera, zigomi alti e occhi color miele. La sua età non la voglio neanche sapere. Nonostante tutto, il caldo, la polvere e l’umidità umana, lui profuma di bucato appena steso (come tutti gli altri: come sono sempre puliti e profumati los nicas!), io invece sì che puzzo come una capra ed ho pure la Cascata delle Marmore tra le tette. E certo che parliamo, se non altro per far scivolare l’imbarazzo. Dopo trenta interminabili minuti, Ricardo mi saluta con un sorriso matahambre e scende. Sale una donna con una bimba bellissima ed ora siamo tette a tette e la povera piccola tra noi. Meglio così va…
Resta valido l’adagio di sempre: quanta vita in queste strade, quanta vita in questi bus.
Io dico che questa gente si innamora pure nei bus. Eccome.